UN INCONTRO CON ANTONIO BRANCA
Antonio Branca è un “ragazzo”, Fante del 127° Reggimento di
Fanteria “Firenze”, reduce della 2^ guerra mondiale e Socio della nostra
Sezione.
Ci riceve sul terrazzo fiorito del suo balcone, in una zona ove
il verde trionfa e conferisce serenità alla mente ed all’anima. Lo circondano
amorevolmente le due figlie, Gianna ed Adriana, ed alcuni cari amici della zona.
Ci riceve con il sorriso cordiale, con quel sorriso che avrà
accompagnato le tante vicende della sua vita; una vita decisamente da
raccontare per la unicità delle situazioni che l’hanno caratterizzata.
Ne abbiamo voluto raccogliere i ricordi per arricchire
ulteriormente il patrimonio storico della nostra Arma: la Fanteria, non a
torto, ancora oggi, la “Regina delle battaglie”,
per la sua esclusiva capacità di risolvere il combattimento.
Antonio Branca aveva già affidato il ricordo di gran parte delle
sue vicende personali ad un pregevole libro dal titolo “Il cammino di una vita”, (di cui riproduciamo la copertina).
Sono vicende che si intrecciano strettamente con i tormenti
storici del nostro Paese durante la triste parentesi della 2^ guerra mondiale.
Con questa nostra “chiacchierata” vorremmo anche “carpire”
qualche altro dato sulla sua vita, decisamente degna di essere vissuta sia pure
nella drammaticità delle vicende che l’hanno caratterizzata. Drammaticità che
Antonio ha saputo anche “condire” con momenti di serenità ed umorismo.
Cominciamo allora questo nostro entusiasmante “percorso di vita”
dalla natia Sardegna fino al balcone fiorito romano.
“Sono nato nel 1919, a
Bolotana, in Sardegna. Nell’agosto del 1936, all’età di 17 anni, sono venuto a
Roma per partecipare con i giovani avanguardisti ad un campeggio Dux presso il
Villaggio Olimpico del Foro Italico. Dopo il campeggio mi recai a Napoli,
presso mia zia Tina. Fui ammirato dalla bellezza di quella città e mi adoperai
per cercarmi un lavoro in attesa di partire per il servizio militare. Ho fatto
il commesso ed anche il cameriere. A 19 anni, nel 1938, mi arruolai a Napoli e
fui assegnato al 31° Reggimento Fanteria. Presentai la domanda per il Corso
Allievi Sottufficiali e dopo 10 mesi intrapresi la mia carriera presso la
Scuola di Casagiove in provincia di Caserta”.
Antonio conserva un ricordo nitido dei primi giorni presso
quella Scuola e ricorda perfettamente i nomi della gran parte degli Ufficiali e
Sottufficiali di quella Scuola.
Fu designato come Allievo Scelto e Comandante di squadra. Nel
gennaio del 1940 gli esami finali del Corso. Antonio racconta una felice
esperienza di quegli esami.
“Il giorno degli esami
venne in visita alla Scuola il Principe Umberto di Savoia che volle anche
assistere agli esami degli Allievi”.
Sostenere un esame e sicuramente un’esperienza emozionante per
tutti. Ma possiamo anche immaginare quale sia stata l’emozione di questi
“ragazzi” nel sostenere la prova finale di fronte ad un’Autorità così elevata.
Ma il nostro “ragazzo” fu bravissimo già allora: il responso fu “tre palle
bianche” cioè promosso. E il Principe gli strinse la mano e gli disse: “Sono
sicuro che farai una bella carriera”.
Un inciso per descrivere una tradizione che continua ancora
oggi. Negli Istituti di formazione dell’Esercito, agli esami finali, la
commissione esaminatrice è composta da tre elementi. Al termine
dell’interrogazione dell’Allievo ciascuno dei componenti la Commissione (senza
farla vedere) inserisce in una urna di legno una palla colorata (bianca se
promosso; nera se bocciato). Dopo questo gesto l’Allievo apre un cassettino
alla base dell’urna, ove si raccolgono le palline inserite, e, ad alta voce,
deve dire il responso. Se prevalgono le palle bianche si è promossi, altrimenti
si è bocciati. Nel pomeriggio poi escono nella bacheca i singoli voti.
Quindi per Antonio, le tre palle bianche significavano
“promosso” ed usci dall’Istituto con il grado di Sergente.
“Durante questo periodo
“napoletano” avevo incontrato Carolina, una ragazza friulana che faceva parte
della famiglia e di cui mi ero innamorato. Già allora facevamo progetti per
quello che sarebbe stato il nostro futuro. Ci siamo conosciuti nel 1937 e ci
siamo sposati alla fine del 1946 quando poi sono ritornato dalla prigionia”.
Ecco la foto di Carolina
Una riflessione: nove anni di attesa, di un’attesa tutta
particolare per un ragazzo che, come si vedrà in seguito, avrà una vita
travagliata e durissima. Eppure questa ragazza rimane lì in attesa del suo
“ragazzo”. Questo è vero amore!
“Durante la licenza di
fine Corso, andai in Sardegna per raggiungere la mia famiglia che non vedevo da
tre anni. Particolarmente commovente fu l’incontro con mia madre e con la nonna
Maddalena che era rimasta vedova quando era ancora giovanissima. Terminata la
licenza, siamo ormai nel febbraio del 1940, mi arrivò la prima destinazione al
127° Reggimento di Fanteria della Divisione “Firenze” di stanza a Pistoia. Fui
assegnato alla 6^ compagnia del 2° battaglione. Quando nel giugno del 1940 ebbe
inizio il secondo conflitto mondiale, il Reggimento fu rischierato in Piemonte
vicino a Moncalieri. Il Reggimento non prese parte alle operazioni contro la
Francia che si conclusero in breve tempo. Fummo poi rischierati nel Veneto a
Sernaglia della Battaglia per un impiego sul fronte greco, ma in realtà, nel
marzo del 1941, andammo in Jugoslavia con tutta la Divisione. Fummo imbarcati a
Bari e sbarcammo a Durazzo, dove avemmo subito il primo Caduto durante un
agguato. Ci spostammo poi nella zona di Fieri e Berat al confine fra l’Albania
e la Macedonia. Qui avvenne subito un episodio tragico. Un colpo di mortaio
nemico colpì in pieno la tenda ove il Colonnello Comandante del Reggimento
(Col. Mazza) stava tenendo a rapporto gli Ufficiali Superiori. Persero la vita
il Comandante del Reggimento ed alcuni altri Ufficiali. Un tragico benvenuto!
Il Ten. Col. Barbarulli assunse il comando del Reggimento. Cominciò un ciclo
operativo che nell’aprile del 1941 ci fece raggiungere la località di Kicevo in
Macedonia. Con il mio battaglione fummo schierati nella località di Gostivar.
Nel febbraio del
1942, fui trasferito al 235° Reggimento della Divisione “Arezzo” per svolgere
le funzioni di istruttore in una Scuola Allievi Sottufficiali che era stata
costituita nei pressi di Tirana, la capitale albanese. Lasciai a malincuore il
mio reparto cui ero molto affezionato. Nell’aprile del 1942, tuttavia, per
fortissimi dolori che mi immobilizzarono braccia e gambe, fui ricoverato prima
in un ospedale da campo e poi all’ospedale militare di Tirana. Mi portarono poi
all’ospedale militare di Bari ove mi dettero una licenza di convalescenza di 90
giorni. Li trascorsi in Sardegna presso la mia famiglia e furono giorni
tristissimi perché ero impossibilitato a muovere le braccia.
Nel settembre del
1942, finalmente, rientrai alla sede del Deposito del mio Reggimento a Pistoia.
Qui per alcuni mesi svolsi l’incarico si Sottufficiale addetto alla
contabilità, ma poi mi adoperai per raggiungere il mio Reggimento ancora in
zona di operazioni. Fui accontentato e nel gennaio del 1943 potetti ritornare a
Kicevo sede del mio battaglione e della mia compagnia.
Cominciarono severe
attività operative con combattimenti contro i partigiani di Tito. Nel maggio
del 1943, ci spostammo poi nel Montenegro, a Dibra,
ove partecipai ad una grossa operazione per la conquista di una importante
quota. Nella circostanza, anche se ero Sergente, mi fu affidato il comando di
un plotone (incarico normalmente
svolto da un Ufficiale). Fu una
operazione difficile e cruenta ove subimmo molte perdite”.
Antonio ricorda con commossa lucidità quegli eventi in cui
caddero tanti amici e commilitoni con cui aveva trascorso lunghi mesi insieme.
Di ciascuno ricorda i nomi, le circostanze della morte e le tristissime
condizioni in cui, ad operazione conclusa, furono rinvenuti i corpi dei
commilitoni deceduti. Per questa operazione, Antonio fu proposto per una
ricompensa al Valor Militare che non ebbe poi seguito per gli eventi dell’8
settembre.
“Le operazioni contro
i partigiani di Tito continuarono poi fino alla data dell’armistizio, il fatale
8 settembre, giorno dell’armistizio, ma l’inizio di un nuovo calvario.
Quel giorno eravamo
impegnati in un’operazione di rastrellamento in una zona ove era schierato un
Gruppo del 41° Reggimento di artiglieria. Ricevemmo l’ordine di rientrare al
Comando Divisione perché erano accerchiati dai tedeschi. Durante il tragitto
fummo informati che i tedeschi stavano facendo saltare il ponte sul fiume Drin
dove noi dovevamo passare. Ci trovammo in una situazione disperata, con i
partigiani alle spalle ed i tedeschi di fronte. Tentammo di rifugiarci sulle
montagne circostanti, ma fummo catturati dai tedeschi dopo essere stati
disarmati e spogliati dai partigiani. Iniziava così la nostra lunga odissea di
prigionieri”.
L’8 settembre è decisamente “il giorno della vergogna” per il
nostro Paese, quando la viltà di Badoglio e della Corona provocò migliaia di
morti e deportati nelle file del nostro Esercito. Ad attenuare questa vergogna,
emersero alcuni fenomeni di puro eroismo, come, ad esempio, la vicenda di
Cefalonia ove i Fanti della Divisione “Acqui” tennero fede al loro giuramento
d’Onore pur consci di sottoporsi ad un tremendo eccidio. Quella di Cefalonia è
una pagina che onora la nostra Arma di Fanteria. Ma torniamo alle tristi
vicende del nostro “ragazzo”.
“A piedi abbiamo
raggiunto il confine con la Bulgaria e poi con una tradotta, più simile ad un
carro-bestiame, siamo arrivati prima a Bucarest (ove i rumeni ci invitavano a
scappare e ci davano del pane) e poi in un campo di smistamento nei pressi di
Norimberga. Dopo circa un mese con un gruppo di una trentina di altri prigionieri
italiani fummo trasferiti nel campo di lavoro n. 1307, a Bayreuth, in Baviera.
Fummo sistemati in capannoni con letti a biposto. Siamo rimasti in quel campo
dall’ottobre del 1943 al marzo del 1944. Questo campo era sostanzialmente un
deposito di sussistenza per la produzione del pane e l’imballaggio del fieno.
Il Comandante del campo era un Maggiore tedesco Mi fu dato l’incarico di Capo
campo, responsabile del mantenimento dell’ordine e della disciplina dei
prigionieri all’interno del campo.
Divisi i prigionieri
italiani in due gruppi: uno addetto ai lavori di carico e scarico all’interno
del magazzino e l’altro ai lavori di imballaggio del fieno e del carico e
scarico di materiali vari dai vagoni ferroviari. Per i due gruppi fissai una
rotazione con cadenza settimanale. Inizialmente andai con la squadra esterna,
ma il lavoro di raccolta del fieno mi provocò un sensibile rigonfiamento delle
mani. Fui allora impiegato nella contabilità a diretto contatto con il Maggiore
tedesco, una persona di una squisitezza straordinaria.
Antonio ha conservato uno splendido ricordo di quest’Ufficiale
con cui ha cercato e mantenuto contatti anche nel dopoguerra. Nel suo libro vi
è questa bella foto di questo Ufficiale nel giorno del suo matrimonio ed
un’altra bella foto con i suoi due nipotini.
“La permanenza nel
campo di Bayreuth purtroppo non è durata a lungo perchè un prigioniero italiano
addetto al lavoro all’interno del magazzino viveri venne sorpreso da una
guardia in possesso di una scatoletta di carne sottratta di nascosto. Per
questo evento, che fu interpretato come un atto di sabotaggio, fummo mandati
tutti via.
Di questo evento Antonio ricorda con particolare tristezza il
distacco dal Maggiore Comandante del campo con cui aveva realizzato un rapporto
cordialissimo.
“Mi portava ogni
tanto a casa sua; ho conosciuto la moglie ed il figlio. Mi portava anche dal
barbiere. Quando ci salutammo mi dette il suo indirizzo con la promessa di
rivederci a guerra finita.
Nell’altro campo cui
fummo destinati (Pegniz) la maggior parte dei
prigionieri furono impiegati in una fabbrica di pezzi di ricambio mentre alcuni
facevano lavori di manovalanza all’esterno della fabbrica. Io facevo parte di
quest’ultimo gruppo.
Qui avvenne un
episodio tutto particolare. Il giorno di Pasqua del 1944, con una squadra del
campo dovevamo aggiustare un tratto di linea ferroviaria. Ad un tratto il mio
sguardo venne attratto da una donna che, dalla finestra di una casa di fronte
al nostro posto di lavoro, faceva lo spogliarello facendomi cenno di avvicinarmi.
Per qualche momento non detti seguito alla cosa, ma verso mezzogiorno la
signora uscì dalla casa, si avvicinò approfittando di un momento di distrazione
del personale tedesco di guardia, lasciò un pacco poco distante facendomi cenno
di prenderlo. Lo presi e c’era un filone di pane imbottito con salame ed un
paio di pacchetti di sigarette. Queste “attenzioni” sono durate parecchio
tempo”.
Antonio era decisamente un bel “ragazzo” ed è noto che le
tedesche hanno una particolare “sensibilità” per il fascino del latin lover. Ma
riprendiamo il seguito della vicenda. Ecco una sua foto di quel periodo.
“Il 13 giugno del
1944, giorno di S. Antonio, ero a riposo, ma la signora non vedendomi ha dato
alla guardia una lettera a me indirizzata, scritta in tedesco. Sfortunatamente
questa lettera fu intercettata dalle S.S. che si erano insospettiti. Verso
mezzanotte fui prelevato dagli S.S. tedeschi e portato al comando di Polizia
del campo ove trovai anche la signora. Fui trattenuto per 3-4 giorni e poi trasferito
alle carceri civili di Norimberga, ove sono rimasto fino al settembre del 1944
dividendo la cella con 14 persone di differente nazionalità. Fu un’esperienza
terrificante. Ci contavano ogni mezz’ora e per questa operazione un Capitano
russo dava l’attenti.
Alla fine di agosto,
finalmente, fummo trasferiti in un campo di concentramento sempre vicino a
Norimberga, in località denominata Fisbac ove vi erano prigionieri di varie
nazionalità. Si andava a lavorare all’esterno in una fabbrica di pezzi di ricambio
per carri. Cominciarono anche i bombardamenti da parte alleata. Gli allarmi
aerei erano diventati ormai una costante sia di giorno sia di notte.
L’ultimo giorno del
1944 ci fu permesso di trascorrere una serata a Norimberga ove in un locale
festeggiammo il Capodanno con wurstel e crauti e poi ci avviammo sulla strada
del ritorno. Fummo sorpresi dalle sirene di allarme aereo. All’inizio non ci
demmo peso. Ma dopo qualche istante una pioggia di bombe lanciate dalle
fortezze volanti americane si abbatté sulla città. Ci infilammo in un rifugio
pensando di averla scampata, ma poco dopo una bomba colpì il rifugio. Riuscii
ad uscire dal rifugio perché volevo morire all’aria aperta e cercai scampo
correndo e sfruttando i crateri provocati proprio dalle bombe d’aereo.
Riuscimmo finalmente a raggiungere il campo.
Si era ormai nel 1945
e si avvertiva la sensazione della fine della guerra perché nel campo, man mano
le guardie sparivano. Invece di essere contenti noi eravamo ancor più
preoccupati perché temevamo di essere eliminati. Per questo la notte dormivamo
nei rifugi invece che nei capannoni.
Ad una certa ora
della notte del 16 aprile 1945, una pattuglia di militari americani tra cui un
italo-americano, fece il suo ingresso nel campo. Il mattino seguente carri armati
americani irruppero nel campo. Finalmente liberi!!!.
Gli italiani si sono
comportati correttamente, ma prigionieri di altre nazioni, fra cui in
particolare i russi, hanno svaligiato la città. Un italo-americano di origine
sarda mi ha procurato dei vestiti.
Dalla liberazione al
rientro in Italia passarono circa 4 mesi ed ebbi l’occasione di incontrare di
nuovo la “signora dello spogliarello”.
Antonio è un perfetto gentiluomo e quindi non si sofferma molto
sulla “relazione” con questa signora, evidentemente molto attratta da questo
bel ragazzo italiano. Noi rispettiamo la sua privacy ed “andiamo oltre”.
“Sono rientrato in
Italia nell’agosto del 1945 perché gli italiani furono gli ultimi a lasciare
quel campo. Mi era stato conferito il grado di Sergente Maggiore.
Rientrammo in Italia
con una tradotta che procedeva ad un ritmo lento mentre invece i nostri cuori
battevano sempre più forte per l’emozione. Arrivati a Bologna ricevemmo dei
soldi e fummo sistemati in un campo sosta per un periodo di quarantena. Ma
insieme ad un caro amico, ce la squagliammo. Io andai a Napoli dalla zia Tina
per rivedere l’amata Carolina. Ebbi poi una licenza di 60 giorni in attesa di
reimpiego. Fui assegnato al 59° Reggimento di Fanteria in Sardegna.
L’8 dicembre del
1946, a Napoli, ho sposato Carolina.
Fui poi trasferito a
Genova al 75° Reggimento Fanteria e dopo alcuni mesi a Cesano di Roma ove sono
rimasto per 2-3 anni prima del definitivo trasferimento a Roma, prima al 17°
Reggimento Fanteria e poi al Comando della Regione Militare Centrale.
Negli ultimi mesi di
servizio sono stato distaccato presso l’Associazione nazionale del Fante. In
questo impegno ho dato l’anima, specie con il Gen. Rossi con cui avevo una
relazione fraterna. Ricordo che avevamo avuto un “alterco” a seguito del quale
sono andato via deciso a lasciare l’Associazione. Proseguivo a piedi, sono
arrivato a Piazza Indipendenza tormentato dal rimorso. Sono tornato indietro ed
ho ripreso a lavorare.
Avevamo migliaia di
Soci alcuni anche in precarie condizioni personali e familiari. Ogni mese
distribuivamo tanto materiale che ricevevamo da varie fonti (Ministeri, Opera
Pontificia di Assistenza ed altre). Ogni fine settimana facevamo il giro per le
Sezioni.
Il rapporto con il
Gen. Rossi è stato stupendo. Lui è morto nel 1981, due giorni prima che io
andassi in pensione. Anche per un omaggio a questa splendida persona, da
pensionato ho proseguito il mio impegno presso l’Associazione fino ad alcuni
anni fa.
Dal 2010, mi godo la
compagnia delle mie figlie e delle splendide nipotine Barbara, Lucrezia e
Beatrice”.
E siamo ritornati sul balcone fiorito romano, all’armonioso
clima familiare e materiale che circonda Antonio Branca. E’ stata una
“chiacchierata” decisamente fantastica. Sono passate alcune ore senza che ce ne
accorgessimo. E’stata una parentesi sublime di “italianità” che ci lascia
ammirati per questo “grande ragazzo” e che ci induce un moto di orgoglio e di
profonda riflessione.
Pur in vicende tristissime l’Italia ha potuto contare su questi
“ragazzi” che ne hanno salvaguardato l’Onore e la Dignità.
Onore e Dignità che dovrebbero ancora oggi caratterizzare il
nostro Paese; ma questa di oggi, purtroppo, è un’altra storia ed un’altra
realtà.
Noi preferiamo l’Italia di Antonio Branca, cui, pur nella
modestia delle nostre posizioni, sentiamo di dover dire, vibratamente, una sola
parola. “GRAZIE!”.